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Rebreathing di monossido di carbonio: una nuova frontiera per l’endurance o un rischio inutile?

Negli ultimi anni, il concetto di biohacking ha preso piede anche nel mondo dello sport, portando atleti e ricercatori a esplorare approcci sempre più audaci per migliorare le performance. Uno dei più controversi è senza dubbio l’uso del monossido di carbonio per aumentare la resistenza fisica e la capacità aerobica.

Studi preliminari suggeriscono che inalare dosi controllate di questo gas tossico possa simulare alcuni effetti dell’allenamento in altitudine, stimolando adattamenti fisiologici utili agli sport di endurance. Ma quanto c’è di vero e, soprattutto, quali sono i rischi reali?

Cos’è il monossido di carbonio e perché se ne parla in ambito sportivo

Il monossido di carbonio (CO) è un gas inodore e incolore, prodotto dalla combustione incompleta di materiali contenenti carbonio, come benzina, carbone e legna.

È noto per la sua pericolosità: si lega all’emoglobina nel sangue con un’affinità circa 200 volte superiore a quella dell’ossigeno, formando la carbossiemoglobina e impedendo il trasporto di ossigeno ai tessuti. In concentrazioni elevate, può portare alla morte per asfissia cellulare.

Tuttavia, alcuni ricercatori hanno ipotizzato che, se somministrato in microdosi attentamente monitorate, il CO possa attivare nel corpo umano meccanismi di adattamento simili a quelli osservati durante l’esposizione prolungata all’alta quota.

Questo ha aperto la strada a uno dei trend più discussi degli ultimi anni: il cosiddetto rebreathing di monossido di carbonio.

Il principio del rebreathing: cosa significa davvero

Il rebreathing consiste nell’inalazione, per un tempo limitato e sotto stretto controllo, di una miscela contenente una piccola percentuale di monossido di carbonio.

L’obiettivo è indurre una lieve ipossia, cioè una temporanea carenza di ossigeno nei tessuti, che stimola la produzione di eritropoietina (EPO) e di globuli rossi, migliorando la capacità del sangue di trasportare ossigeno. Questo processo è molto simile a ciò che avviene durante l’acclimatazione in quota.

La pratica, descritta anche da fonti autorevoli come Men’s Health, si ispira alla logica degli stimoli adattativi: sottoporre l’organismo a uno stress controllato per generare una risposta di miglioramento. In teoria, ciò può tradursi in un aumento della VO₂ max, una maggiore tolleranza allo sforzo e una migliore efficienza cardiovascolare.

Cosa dicono gli studi scientifici: benefici misurabili?

Gli studi sull’efficacia del monossido di carbonio per migliorare le prestazioni atletiche sono ancora in fase iniziale, ma alcuni risultati sono degni di nota.

Uno dei lavori più citati è stato pubblicato sul FASEB Journal e ha coinvolto un piccolo gruppo di ciclisti. Dopo due settimane di rebreathing controllato, i partecipanti hanno registrato un aumento della potenza media e un leggero incremento della soglia anaerobica.

Altri studi su animali hanno mostrato che il CO, in basse concentrazioni, può agire come modulatore dell’attività mitocondriale, migliorando l’efficienza nella produzione di energia e riducendo i livelli di stress ossidativo. Inoltre, è stato osservato un effetto protettivo contro i danni muscolari indotti dall’esercizio intenso.

Tuttavia, va sottolineato che questi studi sono ancora preliminari, su campioni ristretti e privi di follow-up a lungo termine. Non esistono ancora prove solide sull’efficacia della tecnica in ambito competitivo, né tantomeno approvazioni da parte delle agenzie sportive internazionali.

I rischi concreti del monossido di carbonio

Nonostante l’interesse crescente, i rischi legati all’uso del monossido di carbonio restano elevati. La linea tra dose “utile” e dose tossica è estremamente sottile. Una concentrazione anche leggermente superiore può causare cefalea, vertigini, nausea, fino a danni neurologici permanenti o morte.

Il problema principale è che il corpo umano non percepisce la presenza del CO, rendendo molto difficile accorgersi di un’esposizione eccessiva. In assenza di strumenti clinici specifici, monitorare con precisione il livello di saturazione nel sangue è impossibile.

Questo rende il rebreathing una pratica che può essere effettuata solo in ambienti altamente controllati, con personale medico qualificato e apparecchiature specifiche. Qualsiasi tentativo fai-da-te, anche se ispirato alla letteratura scientifica, espone l’atleta a gravi pericoli.

Aspetti etici e regolamentari: è doping?

A livello normativo, l’uso del monossido di carbonio nello sport non è ancora regolamentato in modo esplicito. Tuttavia, alcuni esperti ritengono che questa tecnica rientri già nella definizione di doping ematico, in quanto altera artificialmente la capacità di trasporto dell’ossigeno da parte del sangue.

L’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) non ha ancora incluso il CO nella lista delle sostanze proibite, ma il dibattito è aperto. Anche in assenza di un divieto formale, il rebreathing solleva importanti questioni etiche legate alla salute degli atleti, all’equità competitiva e ai limiti dell’ingegneria fisiologica nello sport.

Conclusioni: innovazione o pericolo mascherato?

Il rebreathing con monossido di carbonio rappresenta una delle frontiere più controverse del miglioramento delle prestazioni sportive. Pur mostrando potenziale sul piano teorico e sperimentale, resta una pratica estremamente rischiosa, poco studiata e priva di linee guida ufficiali.

In attesa di studi clinici più solidi e validazioni regolatorie, il consiglio per atleti e coach è di evitare qualsiasi sperimentazione autonoma. Migliorare la performance non può giustificare l’esposizione a un gas che, se inalato in dosi errate, può avere conseguenze irreversibili per la salute.

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